C’è un modo di guardare, a noi stessi e al reale, di riflettere e cercare di conoscere, che funziona attraverso il separare, distinguere, differenziare: questo modo crea ordine e chiarezza, (ma, come vedremo, ad un qualche prezzo).
In quell’ottica:
- la materia – con i suoi oggetti concreti, le “cose” – è una realtà ben definita;
- la psiche – con le sue emozioni e le sue turbolenze – è un’altra realtà, e infine.
- lo spirito o l’intelletto – con i suoi pensieri, idee e intuizioni – è altra realtà ancora.
Là tutto è separato e distinto nell’ottica dell’ “o… o…”: si deve scegliere, è vero, ma in tal modo si dissipa ogni confusione, si attenua il caos.
E’ la dimensione razionale, regolata dal “principio di non contraddizione”, che si basa sul modo binario di funzionamento del nostro cervello, per cui: o è bianco o è nero, o è dentro o è fuori, o è maschio o è femmina,… e così via.
E’ il piano di riflessione – organizzata secondo criteri generalmente condivisi – sul quale tutti necessariamente ci poniamo, per poterci reciprocamente parlare con la speranza di poterci anche l’un l’altro capire.
Ma non è l’unico piano su cui possiamo disporci nel nostro relazionarci con noi stessi e con il mondo.
E soprattutto non è sempre il piano che ci permette di entrare in contatto con molti dei nostri pazienti, che spesso si trovano distanti da quel tipo di funzionamento mentale, o, al contrario, ci si trovano intrappolati in maniera troppo rigida e ossessiva.
A monte c’è il piano del “sentire”, una dimensione di immediata percezione, sulla quale, appunto la ragione interviene, cercando di ordinare, ed è in questo passaggio che vanno smarriti tutta una serie di dati “non ordinabili”: le sfumature, i chiaroscuri, tutti quei dati della nostra esperienza del vivere quotidiano che, nella loro poca-definizione, non trovano spazio nell’organizzazione razionale.
E’ bene non dimenticare che ciò che viviamo, sentiamo e percepiamo è e resta inevitabilmente molto più vario, complesso e sfaccettato di come tendiamo a rappresentarcelo e spiegarcelo razionalmente.
E’ importante non cadere nell’errore di reificare, in forma troppo assoluta, la visione, del mondo o di noi stessi, che di volta in volta riusciamo ad avere.
Questo per dire che c’è nel nostro sentire quotidiano una dimensione che non è razionale – che dunque non può essere facilmente descritta verbalmente – in cui i tre mondi suddetti si mescolano tra loro: le idee si impregnano di emozioni, la materia si fa corpo di intuizioni sottili, le emozioni si mescolano alla materia, in un intreccio non ordinato di “dentro e fuori”, di “me e non me”… ecc.
Qui c’è molta più confusione, caos, indeterminatezza, ma anche più vivacità, potenzialità, fantasia.
E’ da qui che origina la creatività, intesa come parte dell’essere autenticamente umani che consiste nella capacità di creare realtà non necessariamente visibili ma significative, in grado di esprimere il nostro potenziale immaginativo al di là dei nostri confini razionali e sensoriali.
E’ una dimensione in cui la materia palpita sotto le nostre dita, le emozioni diventano colori che illuminano od oscurano immediatamente la visuale, i pensieri si manifestano a noi incarnati negli oggetti che ci circondano e i nostri affetti avvolgono in maniera pervasiva il reale, talvolta esaltandoci e talaltra annichilendoci.
- Se si abita solo quest’ultima dimensione, senza mai poter accedere alla riflessione razionale, si vive in qualche modo la con-fusione della follia, si resta in balia di flussi emotivi, creativi e/o distruttivi, senza mai poter riflettere né quietare; ma, per contro,
- Se si indugia troppo a lungo nella dimensione razionale o, peggio ancora, se ci si riduce ad abitare soltanto quella, la nostra esperienza del vivere perde linfa e avvizzisce, impoverendosi di freschezza e vitalità: va persa una componente fondamentale del vivere.
Dunque abbiamo bisogno di imparare a muoverci in entrambe le dimensioni, senza cedere nella tentazione di escluderne alcuna, ma semmai imparando a esplorare le zone di confine, a distinguere di volta in volta in che modo stiamo funzionando.
Possono essere molte le situazioni in cui i tre mondi di cui sopra (materia, psiche e spirito) si mescolano, si sovrappongono e si confondono nella percezione umana, formando tessuti bizzarri e multidimensionali.
Si sa che l’arte abita prevalentemente questa dimensione e gli artisti sanno “vedere il dorso delle cose”, per cui le cose stesse sembrano, ai loro occhi, parlare e guardarci,
si sa del feticismo o dall’animismo delle culture africane, in cui un “sovrappiù” di significazione, proprio dell’uomo, si distribuisce sul mondo che egli abita;
ma qui ci interessa focalizzare l’esperienza comune – non quella eccezionale o esotica – attraverso percezioni anche banali, del quotidiano, come per esempio, quando ci accorgiamo, di “provare affetto” verso un oggetto che ci accompagna magari da tanto tempo (auto, telefonino, portachiavi,…) di sentirci quasi “protetti” dalla sua presenza, o, al contrario, quando sentiamo di “detestare” intensamente un oggetto fin lì familiare (un quadro, un abito, una penna,…): quando cioè gli oggetti diventano “cose” (da “causa”, ovvero ciò che riteniamo così importante da mobilitarci), cessano di essere “strumenti d’uso”, si “animano”, diventano realtà con cui ci sentiamo in una “relazione particolare”.
Un altro esempio è quello degli “oggetti orfani”, abbandonati da precedenti proprietari che finiscono nelle nostre mani, per eredità o per “caso”, portando in sé la memoria della loro “vita precedente” (vedi “La vita delle cose” di Remo Bodei)
Possiamo leggere queste percezioni come tracce bizzarre lasciate in noi da forme di pensiero infantile, come residui di passaggi evolutivi ormai superati, ma sarebbe erroneo relegare ciò soltanto nel “patologico”, nel “regressivo” o nel cosiddetto “irrisolto”. Si nasconde in questo genere di sensazioni, qualcosa di più, di potenziale.
In questo universo di percezioni, infatti, appare la dimensione dell’ambiguità, dell’ambivalenza, si apre cioè uno spazio nuovo, inesplorato e inesplorabile per la ragione, dove i confini si fanno più flebili, i muri divisori mostrano le crepe e, insieme all’incertezza, si affaccia e si fa più ampia la dimensione del “possibile”.
Tra le maglie di quelle incrinature possono aprirsi varchi immensi, realtà che altrimenti resterebbero nascoste: sono proprio le ambiguità e ambivalenze che formano ponti che collegano versanti apparentemente opposti, svelano assonanze tra oggetti apparentemente “estranei”, aprendo al superamento di separazioni o scissioni.
Una delle descrizioni più suggestive e “colte”, dal punto di vista psicologico, di questa sorta di mondo intermedio, in cui tende a sparire ogni distinzione troppo netta tra mondo esterno (oggetti materiali) e mondo interno (fantasie, emozioni, intuizioni) è quella di Winnicott, pediatra e psicoanalista della scuola inglese, (nel contesto del modello strutturale delle relazioni) quando ha formulato il concetto di “Oggetto Transizionale” da cui si apre la cosiddetta “Area Transizionale”.
Si tratta di un oggetto specifico copertina o giocattolo cui il bambino si attacca in maniera particolare e si abitua a stringere a sé per addormentarsi o calmarsi da solo.
Il suo campo di osservazione privilegiato è la relazione madre-bambino, fin dal suo inizio, e l’intrecciarsi complesso di vicinanza e distanza, contatto e separazione, che gradualmente portano al formarsi, nel bambino, della percezione di sé come persona distinta, in quella continua e pericolosa “lotta per una esistenza individualizzata”, che lo rende capace sia di solitudine e sia di contatto con gli altri.
Egli osserva una prima fase di dipendenza totale (non integrazione) in cui il bambino dipende totalmente dalla madre e dalla sua capacità di sviluppare uno stato di “preoccupazione materna primaria” (la reverie di Bion) che le consente di riconoscere empaticamente ciò di cui il bambino necessita per “supportarlo” e, gradualmente, “presentargli il mondo”.
Quando il bambino evoca (o allucina) l’oggetto desiderato (il seno), la madre glielo offre tempestivamente, favorendo così il formarsi in lui del “momento dell’illusione”, in cui il bambino, sovrapponendo l’oggetto da lui desiderato e l’oggetto che gli viene offerto, sperimenta se stesso come “onnipotente”, ovvero capace di “creare” ciò che desidera.
Questa fase di onnipotenza, dice Winnicott, è la base necessaria allo sviluppo sano del sé, nonché della futura apertura alla creatività.
A ciò si accompagna la necessità di una capacità di “presenza non impegnativa” (o non intrusiva) da parte della madre, in modo che il bambino possa sperimentare anche momenti di assenza di bisogni e una completa mancanza di integrazione, una sorta di “stato di quiescenza” da cui possono emergere bisogni e gesti spontanei, in una sorta di “gradevole solitudine”.
Fisiologicamente tale sollecitudine materna va scemando e si apre la seconda fase della dipendenza relativa in cui il bambino è costretto a venire a patti con ciò che non può creare, non può fare, non può far succedere.
La durezza di questa fase di dipendenza relativa – indicativamente dai 6 mesi ai 2 anni – è mitigata da una contemporanea spinta, nel bambino, verso la separazione, verso una relativa autonomia.
Due sono i rischi per il sé in formazione del bambino in questo frangente:
- una carenza empatica materna, che rende impossibile sperimentare l’illusione di onnipotenza (fondamentale per un sé sano)
- una eccessiva interferenza (iper-stimolazione) con la sua mancanza di forma e integrazione in stati di quiescenza.
In entrambi questi casi il bambino vive una sorta di annichilimento del sé: qualcosa di esterno (la madre) reclama, il bambino viene strappato al suo stato di quiescenza o viene obbligato ad abbandonare i propri desideri, vittima di un’intrusione pericolosa. Per necessità il bambino finisce per sintonizzarsi – prematuramente e coattivamente – con le richieste e aspettative altrui. Perde il contatto con i propri gesti spontanei e vive una sorta di scissione tra un “vero sé” che si distacca e si atrofizza, e un “falso sé” che si struttura su compiacenza verso altri.
In questo totale annichilimento psichico il falso sé su cui si struttura la personalità del bambino offre l’illusione di un’esistenza personale, il cui contenuto è però modellato sulle aspettative e richieste materne.
Quando invece le cose vanno bene, e il bambino sviluppa gradualmente il proprio sé. ad un certo punto compare, con il formarsi dei cosiddetti “Oggetti Transizionali” (può essere qualunque cosa, dal classico peluche ad una semplice coperta o straccetto, che il bambino “domina dipendendone”) il formarsi di una vera e propria “Area Transizionale” che forma una sorta di tappa evolutiva intermedia tra:
- l’onnipotenza allucinatoria della prima fase (in cui vige l’illusione di creare e controllare gli oggetti del mondo) e
- il riconoscimento della realtà oggettiva, con relativa frustrazione della seconda fase (in cui c’è accettazione dei limiti che l’esistenza autonoma altrui impone).
Winnicott descrive questa “Area Transizionale” come uno spazio che non appartiene né alla realtà interna né a quella esterna, (ovvero ad entrambe), in cui si realizza la maggior parte dell’esperienza del bambino, che, non a caso, si svolge attraverso il gioco, e che per tutta la vita continuerà ad esprimersi nelle arti, nella dimensione immaginativa, nella simbolizzazione e nel lavoro creativo.
Tra questi due mondi:
il mondo interno, degli “oggetti soggettivi” su cui si ha controllo totale;
il mondo esterno, degli “oggetti oggettivi”, separati e indipendenti
se ne apre un terzo, intermedio, di transizione, di “oggetti transizionali” che viene trattato “come se” il bambino lo avesse creato e vi esercitasse un certo controllo.
Secondo Winnicott l’esperienza con l’oggetto transizionale rappresenta il primo “atto creativo” e nasce all’interno di una relazione significativa.
Perché si stabilisca un oggetto transizionale deve esserci un tacito accordo, una complicità tra adulti e bambino, un non dare per scontata la natura di quell’oggetto (creato e/o trovato) e un’attenzione particolare a preservarlo da tragiche sparizioni.
C’è bisogno della condivisione di un paradosso, per cui quell’oggetto non viene assegnato a nessuno dei due mondi (o ad entrambi): è in qualche forma dipendente dal bambino ma, essendo oggetto concreto e non una fantasia, non è completamente e magicamente sotto il suo controllo.
Attraverso il rapporto con questo genere di realtà intermedia il bambino supera una scissione troppo rigida: “l’hai creato tu o lo hai trovato?” perché l’oggetto transizionale è allo stesso tempo trovato “e” creato dal bambino, in quanto lo ha trasformato in ciò di cui aveva bisogno: è così che il soggetto si apre ad una realtà che è la sorgente del gioco, della creatività, della facoltà simbolica.
Relazionandosi con tale oggetto il bambino apprende a muoversi in entrambi i mondi, trovando una sua personalissima mediazione tra
- la necessità di “creare” mondo e
- la necessità di accettare che il mondo esista al di là del suo controllo.
Nel dilemma tra queste due necessità forse continuiamo a trovarci costantemente, anche noi adulti, ed è interessante individuare il tipo di mediazione che ciascuno riesce di volta in volta a trovare.
E questa terza area – da cui è nato il “come se” del gioco – diventa, nell’adulto fonte della creatività, cioè di tutto ciò che concerne il contatto con l’arte, la dimensione simbolica, l’esperienza del sacro, ecc..
La capacità di vivere l’illusione, di giocare in essa e con essa, permette di stabilire se una persona è davvero in grado di simbolizzare, cioè se è in grado di accogliere l’esistenza di uno spazio, di un gioco tra significante e significato.
Infatti, come si può dire a proposito dell’oggetto transizionale, anche del simbolo si può dire – come ha scritto Jung – che “non è né astratto né concreto, né razionale né irrazionale, né reale né irreale. Esso è sempre l’uno e l’altro.” (Psicologia e Alchimia)
Quindi nel ribadire l’importanza di operare costantemente, nel corso della vita, con questa terza area di esperienza, si richiama anche l’esigenza di aiutare i nostri pazienti ad entrarci e a sperimentarla nel rapporto con noi, attraverso numerose strategie e tecniche di cui arricchiamo di volta in volta il nostro bagaglio professionale, per attivare le risorse del mondo interno, rivitalizzarlo, attivare l’immaginazione e la capacità di restare in contatto con ciò che incute timore, il meraviglioso, il miracoloso, il mistero e la poesia, rafforzando il senso di una vita autentica e ricca di significato.
“E’ nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è
in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo
nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé”
(Winnicott)