Viviamo in una società di cultura “patriarcale” dove all’uomo è “naturalmente” riconosciuto un plus valore rispetto alla donna (in termini di razionalità, di capacità decisionale e di attitudine al pensiero) che si concretizza in evidenti differenze di “trattamento” e di “opportunità” tra uomini e donne dal punto di vista sociale, economico, professionale, di accesso a ruoli di potere.
Le differenze di genere sono gerarchizzate: ciò riverbera nella psiche individuale di ciascuno, creando condizionamenti sia negli uomini che nelle donne, a livelli profondi, confermando la gerarchia come “realtà oggettiva e incontrovertibile”.
Le donne si trovano a vivere all’interno di un processo – sociale e culturale, quindi condiviso – che le considera “meno”, “inferiori” “di serie B” rispetto agli uomini.
Ciò si rispecchia in meccanismi psicologici, quali la tendenza all’autosvalutazione piuttosto diffusa tra le donne, soprattutto relativa alla funzione di pensiero, svalutazione che agisce subdolamente e tende a trovar conferma nella realtà concreta, in un circolo vizioso che si autoalimenta.
Eppure forse non è stato sempre così (“Il calice e la spada”)
C’è chi sostiene che sia esistita nel passato una società pre-patriarcale in cui prevaleva non il “matriarcato” come dominio della donna sull’uomo, (Bachofen) quanto piuttosto una forma non gerarchica di “rapporto tra i generi”, basata su un modello di “mutualità reciproca” piuttosto che di sopraffazione o dominazione.
A ciò farebbe riferimento il “mito di Lilith” che nella cultura ebraica fu la prima compagna di Adamo, creata “insieme a lui”, e a lui pari, (a differenza di Eva).
Di questa “donna originaria”, (Genesi: “Insieme li creò, uomo e donna li creò”) sono rimaste scarne tracce. L’ipotesi è che i due non riuscirono a vivere insieme a lungo, probabilmente rifiutandosi lei di sottomettersi al compagno: sta di fatto che ella scomparve dal Paradiso Terrestre inabissandosi nel Mar Rosso dove vivevano i demoni. Fu così che le succedette Eva. Venendo “censurata” dalle sacre scritture Lilith, e ciò ch’ella rappresenta, è diventata tabù.
Le poche tracce rimaste la descrivono negativamente: come “demone femminile”, caratterizzata da sessualità sfrenata e rabbia violenta, (desiderio e violenza: due istinti che la cultura patriarcale associa agli uomini molto più che alle donne) il che fa pensare ch’ella sia diventata – nella nostra cultura – la “parte rifiutata dell’archetipo femminile”, l’Ombra rimossa della forza delle donne.
Realtà o Mito che sia, vale la pena domandarsi se si possa tendere verso una forma di rapporto tra uomini e donne di tipo “intersoggettivo” e non oggettivante né dominante, basato su criteri di “cooperazione e mutualità reciproca”.
Si può “concepire” e praticare questo “altro” ordine di relazione?
Che è come dire: esiste una “modalità di pensiero”, in grado di “concepire il mondo e ordinarne gli elementi” in forma diversa da quella gerarchica.
In più ambiti, si parla al plurale, di almeno due modalità di Pensiero:
- il Pensiero Logico-Razionale (individuato come Maschile, seppure non appartenga solo agli uomini) che procede linearmente per sequenze causa/effetto, prima/dopo, premessa/conseguenza, seguendo il principio di non contraddizione; funziona analiticamente ovvero separa gli elementi e li organizza sequenzialmente secondo schemi ordinati. Tendenzialmente è: preciso, lucido, univoco, strutturato, astratto e rigido.
- Il Pensiero Analogico o Intuitivo (individuato come Femminile, seppure non appartenga solo alle donne) che procede non analiticamente separando gli elementi bensì considerando (contemplando) l’insieme; funziona per somiglianze/differenze, creando metafore, riferimenti simbolici, analogie e individuando connessioni (tipo rete) tra elementi anche di sistemi differenti. Utilizza criteri tipo la simultaneità di eventi (Jung: sincronicità). Tendenzialmente è: lento (paziente), ricco di sfumature, caotico (= disordinato ma anche aperto), plurivoco, concreto ed elastico.
E’ tutto da verificare se il prevalere dell’una negli uomini e dell’altra nelle donne sia “naturalmente” vero o culturalmente determinato: sta di fatto che sono entrambe necessarie e potenzialmente complementari.
E’ probabile che, creando alternanza o comunque cooperazione tra questi differenti modi di funzionare del pensiero si possa affrontare in maniera più consona ed efficace problemi complessi come quelli che affliggono gli equilibri mondiali.
Ciò che qui più ci interessa è focalizzare meglio quella tendenza, da parte delle donne stesse, a farsi conniventi con questi stereotipi relativi alla differenza di genere – profondamente radicati nella coscienza collettiva oltre che nell’inconscio personale e sociale – i quali ribadiscono come alcuni aspetti di “minorità” sarebbero in lei presenti “per natura”, soprattutto dal punto di vista della capacità di pensiero e di riflessione, quindi ineludibili.
Ci sono sicuramente dei “passaggi critici”, dal punto di vista psicologico ed evolutivo, in cui la bambina, nel diventare donna, introietta e tende a “far propri” questi disvalori rispetto alla propria identità di genere, finendo per attuarli concretamente nelle scelte di vita, (i vari evitamenti, le fughe dal mettersi alla prova, la tendenza a rinunciare, la non legittimazione rispetto all’esercizio del potere, la tendenza a rifugiarsi in ruoli più convenzionalmente “femminili”,…).
D’altronde quando si attiva, a partire da un malessere o da una necessità profonda, un processo personale di liberazione da parte di una donna da tale assoggettamento, si fa subito evidente come ciò entri in conflitto inevitabile con l’equilibrio collettivo (l’ambiente familiare, quello lavorativo, il contesto amicale,…) connotando il tentativo di trasformazione con caratteristiche di “pericolosità” per sé e per gli altri. Rischia di far saltare l’equilibrio già pre-esistente.
Da qui l’inquietudine che spesso porta la donna a desistere, a rinunciare, fino a considerare un valore il “sacrificio” dei propri obiettivi per un “bene altrui” percepito prioritario (ipervalutazione del materno; caso clinico 1).
Oppure, data la mancanza di speranze e di futuro che oggi colpisce in maniera più generalizzata i giovani di entrambi i sessi, la giovane donna tende ad optare per ripieghi più “sicuri” di successo legati all’apparire, al mostrarsi, al sedurre, (coazione alla seduzione; caso clinico 2)
Nel graduale processo di crescita ogni giovane donna a seconda dei modelli femminili che trova intorno a sé, a seconda del tipo di conferme o disconferme che riceve, si sentirà sostenuta a ricercare o piuttosto a rinunciare alla propria soggettività; ad affermare il proprio modo di esistere, in quanto donna, o piuttosto a “ridurre” la propria potenza, il valore, l’unicità del proprio essere femminile.
L’autosvalutazione, che spesso ne consegue, può dar vita, si badi bene, sia ad atteggiamenti di sottomissione evidente, e sia a reazioni di costante quanto sterile contrapposizione ribellistica (tipo adolescenziali) di guerra aperta ad oltranza, senza tuttavia una reale fiducia in sé. In una sorta di identificazione con la vittima e quindi il bisogno di restare in tale sconfitta.
Una dimensione cruciale è quella relativa al rapporto madre-figlia, in cui vengono proiettati dall’una e introiettati dall’altra dei “valori” o “dis-valori” relativi all’identità di genere che accomuna entrambe, che spesso nascondono ambivalenze complesse, confusive e talvolta patogene.
Per esempio: nell’incoraggiare consciamente e concretamente la figlia a realizzare certi obiettivi di vita la madre può inconsciamente proiettare su di lei la propria rassegnazione, la propria autosvalutazione e impotenza, rinforzando – suo malgrado – nella figlia la profezia autoavverantesi di “non potercela fare”, in quanto femmina.
In altri casi la madre, nel proiettare i propri desideri inappagati sulla figlia, tende a darle ciò che avrebbe desiderato per sé, in una sorta di sublimazione, salvo poi “rifiutarla” nel momento in cui si acutizza la rabbia rispetto al dare a lei ciò che in realtà avrebbe voluto per sé e non ha avuto.
Ci sono poi gli esempi di cosiddetto “giovanilismo”, con competizione e confusione.
Nella figlia ciò evolve in vissuti di estrema insicurezza e confusione, vissuti di colpa e di riparazione o come “Falso Sé”, nel tentativo di appagare le aspettative materne.
Il rapporto madre-figlia, attraverso intrecci complessi di identificazioni e proiezioni reciproche, agisce in profondità nella trasmissione di vissuti e concetti, consci ed inconsci, relativi all’essere donna in una cultura patriarcale, i quali si insinuano ed si tramandano tacitamente di generazione in generazione.
Due dinamiche tipiche femminili, che nascondono la rinuncia atavica all’affermazione della propria soggettività ed il ripiego in una sorta di “scorciatoia riduttiva”, che passa attraverso una pseudo valorizzazione di sé attraverso lo sguardo altrui, attraverso l’essere vista…. sono:
- Esistere in quanto indispensabile ad altri, quindi avere valore in quanto altri dipendono da me e dal mio saper fare, saper accogliere, sapermi prendere cura, ovvero l’ipervalutazione del materno (una forma sproporzionatamente dilatata e protratta di quella “preoccupazione materna primaria” fisiologica nei primi mesi di accudimento del neonato). Si manifesta con: apparire buona, sempre disponibile, mai rifiutante, senza propri interessi né desideri per privilegiare quelli altrui; (stereotipo della donna come “Madonna”)
- Esistente in quanto vista dall’occhio del maschio, quale oggetto del suo interesse, del suo apprezzamento, catalizzatore del suo potere, ovvero la coazione a sedurre. La modalità più sicura ed immediata è la seduzione sessuale, che non è reale coinvolgimento erotico ma atteggiamento finalizzato a suscitare il desiderio altrui. Si manifesta con: apparire bella, desiderabile, sessualmente eccitante, preda da catturare (stereotipo: donna come “puttana”).
Si tratta per ciascuna di trovare nuovi percorsi, alternative possibili per esistere, vivere e stare al mondo in piena dignità e possibile pienezza.